Due anni fa Born to Die, l’album che ha fatto conoscere al mondo intero la voce e il carisma di Lana Del Rey, fissò talmente in alto il livello a cui questa ragazza di New York poteva giungere, che ci sarebbe voluto parecchio impegno per poter bissare quei risultati, e non parliamo soltanto di vendite. Ultraviolence, uscito lo scorso giugno, ha raggiunto almeno in parte quel livello. Parlare del nuovo album della Del Rey partendo da un confronto col precedente può essere però ingiusto, così come sarebbe ingiusto pretendere da un cantante sempre la stessa qualità nel prodotto finale, perché si rischierebbe di non riuscire ad apprezzare il valore e le perle che anche questo nuovo lavoro contiene.
Le migliori canzoni di questo scrigno sono proprio il primo singolo estratto, West Coast, e il terzo, che porta il nome dell’album: ipnotica la prima, con un ritmo incalzante e sempre più frenetico per poi rallentare al ritornello, con quei versi penetranti e la musica che continua a martellarti in testa anche dopo averla ascoltata; più malinconica e ammaliante la seconda, brutale nel testo, dolente nelle note. Degna di nota anche Cruel World, perfetta per la colonna sonora di un noir dal finale tragico, per quella voce usata così magistralmente che sembra fondersi in un tutt’uno con la chitarra che l’accompagna, rievocando un’atmosfera drammatica e con un non so che di sensuale.
Dove l’album sembra avere un neo è nei finali di canzone, che o sono tirate avanti troppo a lungo o si perdono proprio verso la conclusione, come accade alla pur affascinante Shades of Cool, memorabile tra l’altro per l’uso che questa triste ragazza fa del suo mezzo vocale. C’è tutto un insieme di tonalità sorprendenti in Ultraviolence, e non mi riferisco soltanto al ricorso più frequente alla batteria, alle melodie e a tutto l’insieme di immagini che riescono a richiamare alla mente, ma soprattutto alla voce di Lana Del Rey, che sembra padroneggiare il suo canto con molta più esperienza, facendoci sentire non soltanto quanto in basso possa andare, ma anche un vibrato, un falsetto, un timbro diversi da quelli che credevamo di dover ascoltare. Senza perdere la profondità e quel tocco alla Marilyn Monroe che già conoscevamo.
Ultraviolence è un album nuovo in tutti i sensi. Riprende i temi e le sensazioni del precedente, ma quanto alla musica, è altra roba. Lana Del Rey dice di ispirarsi a Lou Reed e Bob Dylan, ricorda Stevie Nicks e Jeff Buckley, canta Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen e Goodbye Kiss dei Kasabian, ma non è uguale a nessuno di loro. Lana Del Rey è uguale soltanto a sé stessa. Completamente differente da quanto vediamo e ascoltiamo nel pop, nel rock e in qualunque altro genere musicale al momento.
Attualmente, Ultraviolence ha venduto più di un milione di copie in tutto il mondo e potrebbe senza problemi arrivare anche a due; è arrivato al vertice delle classifiche di Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia, solo per citarne alcuni, e nella top three di Germania, Francia, Messico e Brasile. Ne sono stati estratti quattro singoli, e sarebbe un peccato non far uscire anche The Other Woman: è vero, è una cover, ma la interpreta in maniera sublime.
VOTO: 9
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