Il genio ribelle di Will Hunting e di due giovani brillanti promesse

Siamo alla fine degli anni novanta, e due giovani attori americani si cimentano in un film scritto di loro pugno che li avrebbe consacrati a stelle del cinema, e da quel momento in poi la loro fama sarebbe andata soltanto a crescere. Uno dei due recitò la parte del protagonista, un talentuoso ragazzo prodigio che passa lo straccio per i corridoi del Massachusetts Institute of Technology da cui il film prende il titolo, l’altro quella del suo migliore amico Chuckie. Il destino del primo subisce una svolta quando si cimenta, risolvendolo, in un complicatissimo problema di matematica che il professor Lambeau ha lanciato come sfida ai suoi allievi. Quando l’università si accorge di lui e del suo talento, gli si aprirà davanti un ventaglio ben ampio di possibilità per un futuro che credeva di non poter cambiare, sottraendolo alla precarietà della vita lavorativa e affettiva.

Era il 1997, quando Will Hunting uscì nelle sale, mostrando al mondo il talento di Matt Damon e Ben Affleck, e consegnandogli il premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale, anche se su Affleck hanno a lungo pesato le critiche sulle sue capacità attoriali e l’insuccesso al botteghino di diversi film. Matt Damon è probabilmente alla sua interpretazione migliore, l’unica per cui l’Academy l’abbia nominato per un ruolo da protagonista, e non è difficile comprenderne il motivo: è risultato tanto credibile e spontaneo nei panni del ragazzo di strada cresciuto senza genitori che ha timore dell’avvenire e cela la sua insicurezza sotto una corazza fatta di canzonature e cocciutaggine, che i produttori che avrebbero voluto Brad Pitt o Leonardo DiCaprio al suo posto saranno stati felici di essersi sbagliati.

Su Robin Williams, lo psicologo che aiuterà Will Hunting a fare pace col suo passato e a prendere in mano il suo futuro (e ad aprire il cuore alla ragazza che lo ama), non credo ci fosse alcun dubbio: la statuetta per il miglior attore non protagonista arrivò a coronare un’interpretazione splendida quanto toccante, e un’intera carriera già costellata di successi e di ruoli indimenticabili. Il film ebbe, in totale, nove nomination agli Oscar, tra cui miglior regista a Gus Van Sant e miglior film, ma perse, in quest’ultima come per la miglior canzone (Miss Misery di Elliott Smith), contro gli imbattibili Titanic e la sua My Heart Will Go On.

A lungo circolò la voce, poi confermata come semplice diceria, che non fossero stati Affleck e Damon a scrivere la sceneggiatura, ma qualcun altro, magari Rob Reiner, o forse William Goldman, i cui interventi in realtà si limitarono a dei semplici suggerimenti. Forse nessuno credeva che due ventenni fossero in grado di dare vita a dialoghi così veri e brillanti, a una scrittura che prende vita nelle parole dei suoi protagonisti. In effetti, tutto ciò che hanno scritto dopo (due film per Damon diretti ancora da Van Sant, due per Affleck diretti da lui stesso), per quanto di buon livello, non ha avuto lo stesso impatto su pubblico e cultura di massa. Se al loro primo lavoro da sceneggiatori si sono sparati la cartuccia migliore che avevano, se la sono giocata proprio bene.

VOTO: 9

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