Probabilmente, esiste un solo modo per raccontare la storia di una madre che perde il figlio, ed è quello triste. Non credo ci sia alternativa alla drammaticità insita in una perdita così grave. Esistono però svariate possibilità di declinare quella tristezza in racconti dal taglio più melodrammatico, o dal tono più leggero, e così via. Stephen Frears riesce a coniugare mestizia e delicatezza senza appesantire una trama che di suo presenta già il notevole rischio di risultare oltremodo deprimente, e l’interpretazione di Judi Dench fa il resto. La sua Philomena Lee, la donna irlandese che parte alla ricerca del figlio strappatole 50 anni prima con l’ausilio del giornalista Martin Sixsmith (Steve Coogan), riesce a farti commuovere pur senza versare fiumi di lacrime, senza lasciarti un grosso peso sul cuore quando si arriva alla fine dell’avventura; e ci riesce anche grazie ad un tenue velo di umorismo che abbraccia la narrazione e i due personaggi principali.
Dalle primissime scene, in cui veniamo già proiettati nelle vite incrociate dei protagonisti, gli eventi si susseguono rapidamente, e in un attimo dall’Irlanda ci ritroviamo negli Stati Uniti, per poi tornare al luogo di nascita, al convento da cui tutto ha avuto inizio, dove Philomena, appena ragazzina, fu costretta a dare in adozione il bambino che aveva partorito 3 anni prima. Sulle tracce del figlio perduto, ad ogni passo salta fuori una nuova sorpresa, un particolare inaspettato che allunga il cammino e tiene viva l’attenzione, senza i rumorosi colpi di scena e gli sconvolgenti finali a cui tanti film ci hanno abituato, senza sbraitare e sbatterti in faccia il dolore di una madre e la sofferenza per gli inganni e i maltrattamenti subiti da chi, forse, è meno cristiano di quanto indichi l’abito che indossa. Philomena perdona, ama e ricorda sommessamente, ma con una voce e una sguardo che non potrebbero essere più potenti.
VOTO: 9
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