Roma città aperta

Pensandoci, ogni volta che mi trovo di fronte ad un’opera d’arte, avverto un certo tremolio allo stomaco, la pelle d’oca sulle braccia, una particolare sensazione, diciamo pure che mi sento emozionato. Non è questione di estetica, di definire ciò che vedi come bello o brutto, è il privilegio di ammirare qualcosa che è sopravvissuto al passaggio del tempo, che il tempo stesso ha reso ancora più meritevole di conservare, ed ammirare. Succede anche con un film. Prendi Roma città aperta, un film che da solo ti può mettere a contatto con la Storia. Ti piace o meno, porta con sé qualcosa di speciale, per cui solo parlarne diventa difficilissimo.

Quello che tutti sanno di Roma città aperta, al di là dello sfondo bellico e della regia di Rossellini, è la presenza di Anna Magnani. Tanto diretta e tanto eccelsa, da aver (in parte) oscurato quello che è il vero protagonista. Quando si parla di Roma città aperta, si deve parlare innanzitutto di Anna Magnani, e della sua interpretazione senza pari, della sua impavida corsa verso un destino a dir poco spietato. Come in ogni altro lavoro, non si direbbe nemmeno stia recitando, da quanto è naturale e vera. È per questo che, venendo a mancare a metà del film, la seconda parte risente notevolmente della sua assenza, e all’inizio un po’ non ci si crede che si possa proseguire senza di lei.

Si direbbe che si avverte quasi una cesura, come se nel mezzo della storia il film virasse da un’altra parte (e anche i toni, in effetti, si fanno più drammatici, più pesanti). È qui che Aldo Fabrizi si mostra in tutto e per tutto per l’attore che è, lasciandosi dietro quella punta di umorismo che pure lo contraddistingue in un paio di momenti, e incarnando appieno il ruolo tragico che era stato chiamato a interpretare.

Credo sia nella potenza delle immagini la forza di Roma città aperta, come film e come opera d’arte capace di resistere al tempo. Per quanto poi, naturalmente, il tempo possa lasciarci lo zampino, e oggi che siamo avvezzi ad una messa in scena della violenza più cruda, la distanza un po’ si sente. Ti piace o non ti piace, è comunque impossibile che si riesca a dimenticare una rappresentazione così intensa e possente in ogni frammento, dalle lacrime che scorrono sul volto di Fabrizi, alla Magnani nella sequenza più famosa del film, all’espediente della “padellata” sulla testa di un povero vecchio, a questi tedeschi che paiono più veri loro e più temibili di tanti altri similnazisti macchiettistici che abbiamo visto negli anni a venire. Fino all’ultima, per niente rassicurante immagine, di un finale che non lascia nessuna speranza.

VOTO: 8

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