Vi è mai capitato di ritrovarvi ad immaginare come sareste se foste i protagonisti di un cartone animato? E se l’intero mondo intorno a voi, si trasformasse in un cartone animato? Va bene anche se eravate fatti di acido, il che non è molto diverso da quel che sto per raccontarvi.
E se poteste scegliere un’altra esistenza, vorreste essere come Michael Jackson, Elizabeth Taylor o Gesù?
Ma soprattutto, se la vita come la conosciamo cedesse il posto ad una allucinazione perenne, l’ipotesi vi solleticherebbe o vi terrorizzerebbe?
Tre anni fa, Ari Folman ha provato a immaginare tutto questo, creando un universo che somigliava in tutto e per tutto al nostro 2013, salvo poi prendere una piega del tutto diversa, affascinante e orripilante insieme. Il film si chiama The Congress, e la visione che mette in piedi è una di quelle più straordinariamente stimolanti nel campo del cinema di fantascienza.
Robin Wright è Robin Wright, nient’altro che se stessa sul viale del tramonto, un’attrice a cui gli studios chiedono di poter scannerizzare la sua immagine al fine di creare un alter ego digitale. In cambio, lei non dovrà recitare più, ma sarà l’altra lei a farlo, quella che vive solo sullo schermo, nel computer, in un insieme di dati e informazioni virtuali. Perché il futuro procede verso quella direzione, e la sua carriera in declino non le consente altre chance.
Vent’anni dopo, il mondo è precipitato in un miraggio collettivo, in cui basta inalare il contenuto di una fialetta per assumere l’identità che si vuole, la consistenza della realtà è diventata quella di un cartone animato, e l’immagine è praticamente tutto. Ma non è altro che un’illusione, perché le cose non stanno esattamente così.
The Congress costruisce un’utopia che pretende di spacciarti come tale facendoti però dubitare, al tempo stesso, che si tratti di tutto l’opposto, e intanto seduce, stordisce e collassa.
La premessa iniziale mostra un potere suggestivo che non resta inalterato fino alla fine, per quanto la sua carica dirompente sia comunque enorme. Il guaio è che non tutto è immediatamente afferrabile per lo spettatore, e la capacità di discernere tra sogno e realtà a volte non basta ad evitare la confusione. Il che può costituire un bene nel finale aperto che lascia spazio all’immaginazione, meno in alcuni momenti precedenti in cui il rischio di non capirci un’acca è altissimo.
Tenta di essere un capolavoro moderno, ma la complessità della trama non gioca a suo favore. Aiuta molto di più lo straordinario apparato visivo, che si traduce in un universo cartoonistico ancora più angosciante di quanto potrebbe essere quello in carne e ossa, fatto di disegni che ricordano molto da vicino quelli dei lungometraggi di Ralph Bakshi, sorretto dalla toccante colonna sonora di Max Richter, e attraversato dal costante motivo della ricerca di un figlio che non si sa dove sia e di un’indagine sul senso della vita. Alla fin fine è questa la parte con cui The Congress rivela tutto il suo potenziale e la sua carica emozionante.
VOTO: 8
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