Café society è il nome dato alla bella gente che frequentava i locali alla moda delle grandi città, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Veniva chiamata, appunto, anche Beautiful People, o Bright Young Things, per usare delle espressioni in voga sui tabloid. Erano aristocratici, ereditieri, fotografi, scrittori, musicisti, poeti, pittori, ma anche stilisti, arredatori, proprietari di gallerie e, naturalmente, coloro che usiamo chiamare socialite. In fondo, erano un po’ tutti socialite, nella misura in cui intendiamo con questo termine coloro che si danno alla bella vita e frequentano l’alta società.
La café society apparteneva alle grandi città culturalmente effervescenti ed economicamente vivaci come Londra, Parigi e New York, e si radunava nei ristoranti e nei locali à la page e, manco a dirlo, nei caffé. Il caffé non era soltanto un luogo per consumare una bevanda, il che lo renderebbe del tutto assimilabile ad un bar; rappresentava, piuttosto, un punto di incontro per letterati e artisti, di conversazione e di intrattenimento all’insegna della lettura e della musica.
Era, questa, la crème de la crème della società. Dalle pagine dei giornali arrivavano le descrizioni di uno stile di vita mondano ed elegante, di balli in maschera e di cene sontuose, di vacanze nelle mete più ricercate e di feste alla sera in cui lo champagne scorreva a fiumi. I fotografi si accalcavano all’ingresso dei nightclub nell’attesa di immortalare i campioni dello sport o i grandi nomi dello spettacolo. El Morocco, Copacabana o 21 Club saranno frequentati, negli anni, da persone del calibro di Bing Crosby e Frank Sinatra, J. D. Salinger ed Ernest Hemingway, i Kennedy e J. Edgar Hoover, Judy Garland, Grace Kelly, Marilyn Monroe ed Elizabeth Taylor, per intenderci.
L’equivalente odierno della café society potrebbe essere quello che comunemente chiamiamo jet set, benché quest’espressione non abbia la stessa connotazione culturale della prima. Ma Café Society è anche il nome scelto da Woody Allen per il suo ultimo film, presentato in apertura allo scorso Festival di Cannes e ambientato tra New York e Los Angeles negli anni Trenta.
La storia è quella di un rapporto di coppia, che poi si scopre essere un triangolo, destinato infine a farsi addirittura quadrilatero. Al centro c’è Bobby Dorfman, che lavora nella città degli angeli al seguito dello zio, un pezzo grosso dell’industria cinematografica. Le due donne della sua vita rispondono entrambe al nome di Veronica, ma solo una diventerà sua moglie. E poi c’è la sottotrama, legata alla famiglia di Bobby – il fratello gangster, i genitori ebrei, la sorella e il di lei marito – ma tanto più divertente che irrompe nella storia principale con una forza che quest’ultima, ahimé, non ha.
Innanzitutto, il titolo. Quella café society che è un pretesto per tornare alla prima metà del XX secolo, e che compare nei costumi, nei party e nel nome del rinomato nightclub del film. Woody Allen riavvolge il nastro del tempo e ci rimanda a un’epoca di cui ha nostalgia: la stessa epoca che ha già fatto da sfondo ad altri suoi film, la stessa nostalgia per il passato con cui ce li ha raccontati, e che ha dato anche al Gil di Midnight in Paris. Gli anni Trenta appaiono come la cornice ideale per sognare, che sia l’amore, la fama o la ricchezza, ma soprattutto l’amore. Kristen Stewart è il volto che il regista dà alla negazione del piacere, al sogno infranto e alla malinconia.
Il suo quarantaseiesimo lungometraggio non è, comunque, un affresco di quell’età e di un modo di vivere che l’ha segnata, quanto piuttosto una commedia romantica in salsa dolceamara. È proprio l’aspetto romantico che non riesce ad esplodere o, per essere più precisi, a mostrare la passione che i protagonisti non soddisfano. Manca di intensità, cosa che non si può dire per i dialoghi – sebbene con battute e situation ribaditi anche troppo. Appare chiaro, infine, che Jesse Eisenberg si candida più di tutti a raccogliere l’eredità attoriale dello stesso Allen: nervoso, insicuro (almeno apparentemente) e intelligente, potrebbe esserne la copia sputata.
VOTO: 7
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