Dounia e Maimouna, Daisy e Viola, e poi Dory, e ancora Saroo…Alcuni dei film più interessanti passati sul grande schermo negli ultimi mesi sono profondamente invischiati in qualcosa che potremmo liberamente indicare come la ricerca della propria identità. Una ricerca che ha a che fare con la definizione del proprio ruolo nell’ambito di un nucleo familiare, nell’ottica di un classico rapporto genitori-e-figli, ma non necessariamente. È una ricerca che può andare oltre il cammino spirituale per trasformarsi in viaggio vero e proprio, verso una meta e attraverso il mare, o che può riportare a un passato di cui non rimangono che pochi brandelli. Quale che sia il modo in cui quest’indagine tutta personale si attua, un filo comune lega questi nomi e le reciproche avventure così diverse, diversissime: la scoperta di sé stessi deve passare dal confronto con l’altro. Meglio ancora, dal confronto con un modello.
Quel modello è per Dounia e Maimouna il denaro facile, nient’altro che il denaro facile. Dounia e Maimouna sono due adolescenti della periferia di Parigi, che rubano nei centri commerciali per poi rivendere il bottino ai compagni di scuola e si nascondono dietro le quinte di un teatro per osservare, inosservate, le audizioni per uno spettacolo di danza. Dounia e Maimouna guardano di nascosto un intreccio di movimenti e di passi che le incuriosisce e le attrae, ma di cui si burlano e si sentono superiori, del quale vorrebbero forse partecipare ma non hanno il coraggio né la stoffa per farlo. Così come guardano quelli che ritengono essere i nuovi, giovani ricchi da invidiare, i piccoli spacciatori. Ne avvicinano una, Rebecca, tentando di impressionarla per poter diventare parte del suo clan. È con quello stesso misto di ammirazione, desiderio e timore, con quella stessa voglia di toccare un mondo che fino ad allora hanno solo sfiorato che guardano questo giro d’affari, con la bava alla bocca e la sfrontatezza di fingersi migliori degli altri, migliori di tutti.
Diciamo pure che, allora, la chimera del guadagno facile passa attraverso un altro modello, più tangibile, che si situa al di fuori della legalità. Dounia e Maimouna non hanno un talento da mettere in pratica, né nutrono il sogno di una realizzazione professionale che chiunque ha avuto nella sua giovane età. Vogliono solo fare soldi, non importa come, ma importa il quando, e cioè subito. Non sanno, però, che anche la malavita ha le sue regole e i suoi tempi, e che a fare il passo più lungo della gamba qualcuno finisce per scottarsi. Divines – questo il nome del film – mostra che cosa si rischia a giocare col fuoco, mentre insegna a noi che le opere meritevoli possono passare anche per altri canali (Netflix, nel nostro caso).
Dalla periferia parigina all’hinterland napoletano di Indivisibili, dove vivono Daisy e Viola, sorelle che si procurano da vivere esibendosi come cantanti in feste private, serenate e cerimonie affini. Il successo, limitatamente alla provincia in cui abitano e lavorano s’intende, deriva non tanto da un repertorio originale e comunque studiato nei particolari, quanto dalla loro condizione di essere gemelle siamesi. Per di più, una furbesca propaganda attuata dalla famiglia stessa mira a farne quasi delle sante, sulla scorta dell’appoggio interessato della Chiesa locale e in virtù di una religiosità popolare assai diffusa.
Daisy e Viola hanno vissuto così, fino ai diciotto anni, attaccate soltanto per un lembo dei loro corpi ma pur sempre legate, e pagando di fatto da vivere ad un’intera famiglia di poltroni e parassiti, che spende i soldi in chincaglierie inutili e sperpera il rimanente al gioco. Fino a quando, un giorno, scoprono di potersi dividere. Se i genitori s’oppongono senza neanche lasciar spazio al dialogo, intorno a loro non c’è nessun altro che sia disposto ad aiutarle, quantomeno a capire. Ma separarsi non è un’idea sulla quale sono entrambe d’accordo. Apparentemente congiunte in uno yin e uno yang di cui una è la parte più forte e coraggiosa e l’altra la parte più temeraria e insicura, le due sorelle scopriranno che a questo mondo nessuno è come sembra, a cominciare da loro stesse. Il loro modello di riferimento non può che essere rappresentato, per ognuna, dalla gemella che le è accanto, e che determina il senso di una vita intera. Il finale è toccante oltre il prevedibile.
Poco e molto, invece, hanno in comune Dory e Saroo. Molto, perché è di un viaggio vero e proprio, e non soltanto metaforico, che stiamo parlando, ed è per giunta un cammino sulle tracce della propria famiglia. Poco, non foss’altro perché la storia di Saroo è realmente accaduta, mentre Dory appartiene all’universo animato. Precisamente, a un universo a noi già noto, nato nel 2003 con un pesciolino di nome Nemo che aveva smarrito il papà.
Alla ricerca di Dory ripropone i tratti essenziali di quel capolavoro moderno dell’animazione – l’ambientazione marina, familiari che tentano di ritrovarsi – trasportandoli però su un piano alquanto diverso, a cominciare dal fatto che stavolta è solo Dory, la figlia, ad essere parte attiva nella ricerca. Dei genitori non abbiamo che scarse notizie, costituite dai fugaci flashback che riaffiorano in una memoria fragile come quella del famoso pesce chirurgo. Persino molti dei personaggi sono nuovi di zecca, e l’idea si spingere il viaggio dei protagonisti in un ambiente sconosciuto e ostile minacciato dalla temibile presenza umana come un acquario si rivela una felice trovata. A metà tra sequel e spin-off, Alla ricerca di Dory è l’esempio lampante che si può cavare qualcosa di buono anche dall’usato. Come la vicenda di Saroo Brierley, nato in India, allontanatosi per sbaglio dalla madre e dal fratello e finito tra le braccia di una famiglia adottiva in Australia. Dopo essere stata oggetto di un libro di memorie è diventata il soggetto di una pellicola firmata Garth Davis, al suo primo lungometraggio.
Perfettamente divisibile in due parti, la prima che mostra, simile a un romanzo picaresco e d’avventura, il piccolo Saroo smarrito nella grande Calcutta nel tentativo sempre più disperato di tornare a casa, la seconda catapultata nell’età adulta con un salto di circa 25 anni, Lion non gode della stessa intensità dall’inizio alla fine: straziante ma senza calcare la mano prima, perde pian piano di tono che ritrova poi mirabilmente prima della chiusura, salvandosi in calcio d’angolo. Quel sottotitolo italiano, La strada verso casa, spiega già molte cose. E rende quantomai evidente che il bisogno di Saroo, come di Dory, è quello di dare un senso ad un’infanzia confinata in un angolo della memoria e che si lega solo a figure sfocate e a luoghi difficilmente circoscrivibili. Sarebbe banalmente riduttivo ricondurre quest’ansia esistenziale – certo molto sviluppata nell’uomo che nel pesce – soltanto al desiderio di ricongiungersi a una mamma e un papà. I genitori, qui, sono anche altro da sé stessi: sono cioè l’unica cosa che tiene in vita un passato scolorito e quasi aureo, dolente eppure necessario, com’è necessaria quell’età della vita con la quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. È quel tempo che Dory e Saroo devono ritrovare, ricordare, comprendere per poi chiudere definitivamente e guardare avanti, e diventare finalmente esseri completi, persone o pesci che siano.
DIVINES: 8
INDIVISIBILI: 10
LION – LA STRADA VERSO CASA: 8
ALLA RICERCA DI DORY: 7
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