Jackie

Volete i fatti o quel che è nascosto dietro? Quale versione state cercando della verità? A una settimana dalla morte del 35º presidente degli Stati Uniti, il mondo vuole sapere cosa ne sarà della moglie che l’ha seppellito. La donna si chiama Jacqueline Kennedy, e il resto del mondo che lascia entrare in casa ha la voce della stampa e il nome di Theodore H. White, reporter di Life che pubblicò l’intervista il 6 dicembre 1963. Non era la prima volta che la first lady apriva le porte di casa ai giornalisti, solo che allora abitava alla Casa Bianca, ed è a partire da questa chiacchierata assai formale che Pablo Larraìn costruisce il suo film, ma soprattutto è a partire da essa che chiarisce da dove intende guardare.

Jackie non è la storia di un assassinio – quella la conosciamo tutti – e non è nemmeno la Storia, ufficiale e pubblica, dei giorni che seguirono, o almeno non soltanto quella. Spostando il punto di vista dall’altro lato, quello della vedova Kennedy, il regista cileno prova a insinuarsi tra gli abiti della donna al di là dell’icona di stile, tra la sofferenza insopportabile dietro l’immagine composta. Si intuisce fin dal titolo che questo è Jackie – oltre che una Natalie Portman in stato di grazia – è lei, in ogni istante, in ogni inquadratura, in ogni scena in cui è sempre al centro della stanza, in ogni primo piano. È la sua storia, come si vede benissimo dall’intervista a cui si si alternano gli istanti che pian piano racconta.

Jackie

Manipolando, decidendo cosa si può pubblicare e cosa no, dettando la linea della conversazione anziché limitarsi a rispondere alle domande, l’intervistata fornisce la sua versione degli eventi che non per questo non corrisponde alla realtà. L’aspetto che intendiamo mantenere, il ricordo che vogliamo tramandare, l’ideale che sottende alle azioni che intraprendiamo agli occhi di chi ci guarda dicono molto di noi, altrettanto di quanto potrebbe rivelare ciò che succede a porte chiuse. È la stessa caparbietà con cui si muove tra familiari e alte cariche di stato, è la stessa tenacia con cui insiste nel pretendere la processione per le strade per le esequie del marito. Ma è anche la dignità con cui, una volta, ha lasciato entrare le telecamere della CBS per riprendere gli appartamenti presidenziali, ed è l’ostinazione con cui decide di indossare gli stessi vestiti macchiati di sangue durante l’improvviso e rapido giuramento del neopresidente Lyndon Johnson. Jackie è pura forza di volontà, lungi dall’essere un appendiabiti vivente per un vestito Chanel o un sorriso da sfoggiare ai fotografi per le copertine. È l’intelligenza raffinata che contribuisce alla costruzione di una nuova Casa Bianca e di un sistema di valori a partire da essa.

«Ask ev’ry person if he’s heard the story / And tell it strong and clear if he has not / That once there was a fleeting wisp of glory / Called Camelot». Sono le parole che risuonano in chiusura di Camelot, il musical prediletto da John e Jackie, e che è proprio lei a citare, alla fine, come l’emblema del paradigma che li ha ispirati. Innalzare una nuova Camelot, offrire all’America un barlume di gloria che tutti possano ricordare. Persino nei momenti più tragici del cordoglio, vestire l’immenso dolore con regalità.

VOTO: 10

Jackie

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