Da una parte un’astronave che vola nello spazio alla volta di un nuovo pianeta da colonizzare, e dall’altra ancora un’astronave – meglio, una serie di astronavi – arrivata sulla Terra. Le analogie tra Passengers e Arrival, ultimi esiti della fantascienza odierna passati all’attenzione della critica che conta, apparentemente finiscono qui. Diverse sono le ragioni del viaggio, diverse le destinazioni, diverse le epoche. A voler aggiungere qualcosa, ci sarebbero le osannatissime colonne sonore, efficaci ma comunque firmate da autodi differenti.
I passeggeri a bordo della Avalon che danno il nome al film di Morten Tyldum sono 5000 individui che hanno detto addio alla Terra. Destinazione: Homestead II. Non c’è un’unica motivazione collettiva dietro questa ingente migrazione se non la volontà di rifarsi una vita da un’altra parte dell’universo. Nulla, nemmeno la fame e la miseria, pare li abbia spinti a lasciarsi alle spalle il nostro pianeta, sul quale la vita procede regolarmente e senza che alcun disastro ecologico li abbia resi in qualche modo dei sopravvissuti. I passeggeri sui quali si focalizza il mirino della narrazione si chiamano James e Aurora, risvegliatisi dall’ibernazione con novant’anni di anticipo, a seguito di un’avaria provocata dallo scontro con un meteorite, e impossibilitati a rimettersi a dormire. Non gli resta altro da fare che imparare a trascorrere il proprio tempo sull’astronave, insieme, e prendersi il buono che si può ricavare dalla situazione.
A prima vista, potrebbe darsi un nuovo caso di fantascienza filosofica. I presupposti ci sono tutti: James è un meccanico, anche piuttosto talentuoso, capace di costruire un bel po’ di nuove apparecchiature con quel che trova a bordo, benché poi non sia in grado di riparare il guasto della propria capsula. Non è l’unica incongruenza del film, a voler essere puntigliosi, e bene o male insistono tutte sul versante tecnologico. Insomma, c’è da chiedersi come mai un mezzo di trasporto progettato per traghettare l’essere umano da una galassia all’altra sia così fragile e così impreparato ad affrontare il minimo inconveniente. È anche questo, tuttavia, che contribuisce a rafforzare l’altra faccia della medaglia, quella concentrata sui risvolti umani e psicologici che non sull’aspetto pratico della vicenda. Sulla Terra, James è soltanto un manovale, un operaio come un altro; su un pianeta tutto da costruire, però, la sua esperienza potrebbe rivelarsi significativa. Quanto ad Aurora, lei che di professione mette nero su bianco, sogna di poter scrivere un resoconto dettagliato del suo pellegrinaggio interplanetario da consegnare ai posteri. È un po’ il vecchio sogno americano, di imbarcarsi sull’oceano per trovare realizzazione nel nuovo mondo, con i sogni personali dei due protagonisti che riproducono su piccola scala le ambizioni di intere generazioni.
Nella pellicola di Denis Villeneuve, chi viaggia non è un essere umano: sono gli alieni, giunti da chissà dove proprio sulla Terra, e atterratti in ciascuno dei cinque continenti con le loro astronavi ovali e cripticamente impenetrabili. Com’è impenetrabile quel che racchiudono all’interno: chi sono questi alieni, da dove vengono e cosa vogliono costituiscono gli interrogativi a cui deve trovare risposta una squadra eterogenea di scienziati. Esattamente come sette anni prima in District 9, gli extraterrestri non hanno scelto un’unica meta su cui approdare, e restano sospesi a mezz’aria, come se fossero perennemente sul punto di andar via, vicini ma intoccabili.
Arrival gioca con lo spettatore mediante i meccanismi dell’attesa, ritardando minuto dopo minuto il momento in cui riusciremo a vedere finalmente l’astronave, e mostrandocela un po’ alla volta, fino a penetrare al suo interno, e instillando una curiosità che non viene mai interamente soddisfatta. A cominciare dalla medesima astronave, i cui ambienti sono misteriosamente immersi in una nebbia di provenienza non identificabile e che rende impossibile stabilire i contorni degli alieni e dello spazio in cui si muovono, per arrivare al senso stesso di questa relazione interraziale. Il nucleo narrativo principale sta nella difficoltà di stabilire un canale di interazione prima, e di intepretare il messaggio poi. Il problema, insomma, non è un’invasione aliena che minaccia l’esistenza sulla Terra, né alcunché di natura bellica: si tratta di comunicazione.
Quella che per Arrival è una vera e propria divisa, per Passengers è tutt’al più un soprabito. È al momento di tirare le somme che il secondo manda in cortocircuito la sua nave e tutto il contenuto filosofico di cui si è fatto carico, preferendo virare verso una tradizionale e meno impegnativa avventura spaziale in grande stile, e che comunque regala alcune soddisfazioni se non si pretende il capolavoro, laddove Arrival arriva ad esigere finanche una sospensione dell’incredulità – dentro e fuori al film – per poter disvelare i suoi segreti. Ma è anche a questo punto che i due titoli, pur nella loro profonda diversità, entrano in contatto.
Sugli unici due passeggeri vigili della Avalon pesa l’ingrato compito di riparare l’avaria generale prima che coinvolga anche gli altri ignari ospiti addormentati. L’urgenza di impedire un’eventuale catastrofe è sentita con uguale intensità con cui sono vissuti la solitudine dei protagonisti e i problemi della vita di coppia. Ma la drammaticità dei fatti ci induce più a preoccuparci per i due eroi che non a percepire un reale pericolo collettivo, mentre anche la loro situazione personale resta del tutto eccezionale, difficilmente generalizzabile e applicabile ad altri contesti. In un universo in cui la Terra è ancora al centro e gli altri mondi sono potenziali colonie, le faccende del nostro pianeta madre non sembrano mai interessarci veramente. Cosa nè è di esso, cosa troveranno i viaggiatori sulla nuova Terra sono argomenti che non entrano nel discorso se non attraverso le prospettive, isolate, di James e Aurora. Persino i pericoli che il malfunzionamento della nave comporta per il resto dell’equipaggio sono difficili da percepire come un problema dell’intera umanità.
Arrival sembra puntare invece ad una maggiore calibratura dei fatti umani universali e privati: l’arrivo degli alieni riguarda la popolazione mondiale, presente e futura, non soltanto per la portata immaginabile di un simile evento, ma soprattutto per il senso di questa venuta. Mentre alieni ed esseri umani imparano a dialogare tra loro, i primi rischiano di dimenticare l’innata appartenenza ad una comunità globale, come se fosse più complicato dialogare con chi vive dall’altra parte del globo che non con una razza con cui non condividiamo neanche l’alfabeto.E tuttavia la finalità ultima del viaggio viene taciuta, il futuro cui quel viaggio deve prepararci passa in secondo piano rispetto al futuro della linguista Louise Banks, ad una vicenda che la mette sì in relazione con l’intera umanità, ma al contempo è anche intimissima: è il suo matrimonio, la sua maternità, il suo dolore. Ed è forse proprio in questo delicato equilibrio che Arrival fa un passo in più.
ARRIVAL: 10
PASSENGERS: 8
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