E così, questa settimana siamo arrivati a trenta. Trent’anni tondi tondi. Se devo dirvi che è stato un momento di grandi travolgimenti, no, non posso: mentirei. Le ore immediatamente precedenti o successive a un compleanno significano poco. Se uno ha un po’ di ragionevolezza, ci arriva preparato, a queste cose. È stato ai ventinove che ho iniziato a pensarci, infatti, e allora tutto mi è sembrato meno spaventoso.
A vent’anni, i trenta mi parevano una roba insormontabile. Qualcosa come Davide e Golia, in cui io ero Davide e i trenta erano Golia. Pensavo che non sarei più stato giovane – cioè, che sarei stato diversamente giovane, ma comunque con qualche diritto in meno. Per esempio, con meno diritti a sbagliare. A vent’anni ti puoi ancora permettere di perdere la testa, di fare qualcosa di avventato, anche tutti i giorni. Dai trenta in poi, se lo fai sei un idiota. E comunque, io di questo diritto ne ho usufruito ben poco. E poi, a vent’anni puoi ancora concederti il lusso di non sapere cosa vuoi dalla vita, o di fingere di sapere esattamente cosa vuoi e come andrà a finire, tanto hai tutto il tempo davanti a te per smentire le tue illusioni e trovare qualcos’altro con cui sostituirle.
A quei tempi (a trent’anni mi sono guadagnato la facoltà di dire “a quei tempi”) pensavo che i venti fossero tutto, e che dovessi bruciare tutta la mia vita in quel decennio lì. Ero convinto che dovessi raggiungere tutti i traguardi che uno si possa prefiggere prima di dirmi trentenne, e già mi vedevo pubblicare un libro, vincere un Oscar e scalare la vetta del monte più alto del mondo (che, per inciso, non so quale sia). Credevo che solo così Davide sarebbe stato in grado di scagliare un sasso contro Golia e colpirlo in pieno.
Ma i trent’anni mi aspettavano già, con tutto quel che vogliono dire, e cioè con il sentore di trovarsi in un corpo che cambia e con il senso del dovere che afferra il piacere per la gola e lo scamazza a terra. Mi hanno teso un agguato molto prima che iniziassi ad alzare la guardia. Ai venticinque ho avuto per la prima volta mal di schiena. Poi sono arrivate le gambe pesanti, e la sensazione di aver percorso cento chilometri quand’erano appena cento metri. Mi sono ritrovato con la pancetta quando niente, nel mio stile di vita, pareva essere cambiato. Persino la pelle non era più la stessa. Sul fronte del lavoro, è andata anche peggio. Io, che ho trascorso i miei primi ventisei anni di vita a sbattere la testa sui libri con la determinazione di uno Sheldon Cooper che debba ricevere il Nobel a ogni costo, mi sono reso conto che non sapevo più che farci, di tutti quei voti e quei libri. E non è che adesso lo sappia. Non lo avrei mai detto, a vent’anni, che ai trenta non sarei ancora diventato ciò che volevo essere.
Ma se vogliamo continuare a essere sinceri, non è che dieci anni fa sapessi esattamente chi cosa volessi essere. Sapevo solo di voler diventare qualcosa o qualcuno, per poter dire che c’ero anch’io a questo mondo. Perché credevo che tutto ciò che di concreto avrei ottenuto, accumulato, incassato, avrebbe contribuito a definire un’immagine di me con cui avrei potuto specchiarmi, e dirmi che non mi stava tanto male. Perché se avessi davvero scritto un libro, o vinto un premio, o avessi stretto la mano a qualcuno di importante o avessi viaggiato in un paese di cui non sapessi pronunciare il nome, avrei potuto presentarmi a chiunque dicendo che io ero quello lì, quello che ha visto tanto, quello che ha vissuto.
Mi rendo conto, invece, che è proprio questo che attiene ai vent’anni. Tutta questa smania di pormi traguardi irraggiungibili, fantasiosi, e forse anche indesiderati, era solo figlia dei miei venti, giovanissimi anni. Ero molto più ingenuo e insicuro allora, a fingere di rassicurarmi con l’illusione che avrei lasciato una tale impronta nel mondo – e così presto, per giunta – di quanto lo sia adesso, nell’ammettere che a dubitare dei propri passi non si muore mica.
A ventinove anni ho realizzato che i trenta erano proprio lì, che non li avrei fermati, o ritardati, e che tanto valeva farci due chiacchiere. È stato allora che ho capito che se avessi scritto un libro non lo avrebbe mai letto nessuno, perché ne nasce uno ogni secolo che sappia mettere la penna sul foglio come si deve prima dei trenta. Ho capito di essere ancora in tempo per spuntare tutte le voci che rimanevano nella mia personale lista da fare, ma che dovevo altresì darmi un mossa, anziché stare ad aspettare che le cose capitassero e basta. Ho capito che non c’è nulla di male nel non desiderare un matrimonio e dei figli, e che a volte alcune amicizie, quando cominciano ad ammuffire, bisogna lasciarle andare senza rimpianti. Ho capito che non sono disposto a indossare la stessa veste per sempre, e che forse un giorno troverò un impiego che mi renda felice, prima che abbia voglia di cambiare di nuovo aria dopo un anno o due, e andrà bene così. E ho capito che se ci sono ancora così tante cose che ho voglia di assaggiare, guardare, testare, chi lo dice che non possa farlo? Basta solo comprendere che ogni cosa ha il suo tempo.
Sarebbe ingiusto dire che a tutto questo ci sono arrivato al mio trentesimo compleanno. Sarebbe come non riconoscere che tutto quello che lo ha preceduto mi ha portato fin qui. Che tutto quello che ho maturato negli anni precedenti ha avuto un senso. Adesso so che i trenta non sono una fine, né tantomeno un traguardo. Piuttosto, una sosta al pit stop, per riprendere fiato e ripartire. Con molte consapevolezze, e molte sicurezze in più, ancora poche rispetto a quante ne ho da guadagnare, ma non vedo l’ora di conquistarmele.
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