Quella strana solidarietà nella guerra

La mia insegnante di storia delle medie una volta ci assegnò un particolare compito a casa: chiedere ai nostri nonni – o agli zii, o a un vicino di casa – di raccontarci dei loro ricordi della guerra. Dovevamo mettere le loro parole per iscritto, dargli una forma, ma senza pulirle più di tanto. Lasciare una traccia d’oralità. C’è una cosa che mi ha sempre colpito, del racconto di mia nonna – che poi era, manco a farlo apposta, la chiusa finale delle sue memorie – ed è quel momento di solidarietà collettiva che scaturiva dalla disgrazia.

Mia nonna diceva che, quando suonavano le sirene, correvano tutti a nascondersi nei rifugi. Mentre attendevano che passasse l’allarme, restavano in attesa di scoprire chi e cosa avessero bombardato nel frattempo. Chi avesse perso la casa, chi molto di più. Quando tornavano a respirare, la scoperta che anche stavolta non era toccato a te ti riempiva di sollievo. Si abbracciavano l’uno con l’altro, amici, parenti, conoscenti, dirimpettai, felici di averla scampata nuovamente. E, subito dopo, ripiombavano in un’altra, diversa, angosciosa disperazione, pensando a coloro sulle cui teste e sulle cui vite erano cadute quelle bombe.

La guerra ha un modo tutto suo di creare delle alleanze. Ti ritrovi ad abbracciare coloro a cui non avevi neanche mai stretto la mano. Persone a cui fino ad allora avevi appena rivolto una parola diventano compagni di sventura. Mia nonna mi ha parlato spesso della guerra, e nei suoi racconti questo particolare ricorreva continuamente. Mi è tornato in mente ieri, sentendo le parole di un’intervistata a uno dei tg nazionali. Era in piazza per manifestare contro la guerra in Ucraina e diceva che scendere in piazza non riuscirà a fermare uno scontro in atto; più che altro, è un modo per sentirsi tutti vicini. L’ha definita una pratica quasi religiosa. Un mezzo per esorcizzare la paura, forse, per percepire il conforto reciproco che deriva dal trovarsi nella stessa situazione di dolore. Magari, per far arrivare la propria solidarietà anche a coloro che vivono là dove la paura è maggiore.

C’è questa capacità che hanno le proteste di piazza, e le disgrazie, e la guerra, di farti sentire vicino a chi non è semplicemente a un metro accanto a te, ma che vive quello che stai vivendo tu. Non è più questione di spazio, ma di empatia. Questa capacità di creare un noi che è tanto compatto quanto sono loro, che di quelle proteste e disgrazie e guerre sono la causa.

Bisognerebbe che il noi diventasse sempre più compatto, e grande, da abbattersi su quegli altri e riuscire a sgretolarli. E che questa vicinanza riuscissimo poi a ricordarcela anche quando la bufera sarà passata.

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