Ho sempre avuto un problema con l’immagine di me stesso. E non mi riferisco a una questione puramente estetica – su quella, in realtà, ci sarebbe da aprire tutt’un altro discorso. Più che altro, mi riferisco alla percezione che gli altri hanno di me stesso. Basta un episodio, una mezza parola, un fraintendimento a fare di te qualcosa di diverso da come ti sei sempre pensato.
Mi ricordo, per esempio, che quand’ero piccolo mia nonna chiese a me e mia sorella come ci piacessero le uova di Pasqua. Lei, mia sorella, rispose che le piaceva la cioccolata fondente, e automaticamente io son diventato quello a cui regalare le uova di cioccolata al latte. Ho dovuto aspettare di diventare abbastanza grande da non ricevere più uova di Pasqua per liberarmi da questa sciagura.
Ne volete un’altra? All’università mi iscrissi alla facoltà di lettere, più per volere dei miei genitori che per scelta mia. E così fu anche alla magistrale. Nella mente di tutta la mia famiglia e di buona parte di quelli che mi conoscono, io sono quello che voleva diventare un insegnante – e io l’insegnante non l’ho mai voluto fare. Ancora oggi c’è chi mi chiama “professore”, e giuro che non ho mai lavorato in una scuola un solo giorno della mia vita.
È la stessa sensazione che provo quando chi ho di fronte fa fatica a credere che mi possa piacere l’horror perché non ho la faccia di uno a cui piace quel genere lì, o che mi piaccia il mare nonostante non sopporti il caldo: la sensazione di non riuscire a restituire la giusta immagine di me. Quello che sono veramente, o perlomeno come mi percepisco io.
All’inizio mi faceva ridere, davvero, quando i miei amici mi prendevano in giro su cose che in realtà non sono mai realmente accadute. Poi ho cominciato a sentire che non era più tanto divertente, specie quando gli equivoci hanno iniziato ad accumularsi: Andrea che vuole fare il giornalista, Andrea che vuole essere un avvocato, Andrea a cui non piace il rock, Andrea a cui non piace guidare, Andrea che non mangia carne, Andrea che non mangia pesce. Mi sono fatto tante domande al riguardo: succede solo a me, o è qualcosa che riguarda tutti? E come mai me ne accadono così tante? Come mai faccio così fatica a farmi riconoscere per quello che sono, per uno a cui piace la musica rock tanto quanto i tormentoni estivi, a cui fa impazzire l’horror nonostante il suo film preferito sia Via col vento, e che non ha mai voluto insegnare anche se a scuola andava bene in italiano e storia? E qual è la mia responsabilità in tutto questo? Sono stato io ad alimentare questi falsi ritratti?
Credo che molto dipenda dal fatto che sono sempre stato uno a cui importa del giudizio altrui. Ecco, se non lo fossi, probabilmente non starei qui a scrivere tutto questo. Perché mi dà fastidio quando la gente dopo tanti anni resta ancora sorpresa a sentirmi dire che vado al cinema a vedere i film Marvel? Ah, tu? Sì? Non ti facevo tipo da cinecomic. E perché no, poi? Ma allora, non dovrei godermi il film e basta?
E se, probabilmente, invece la domanda più rilevante di tutte fosse proprio l’ultima di quelle qui sopra: non è che sarà anche un po’ colpa mia?
Perché penso che a un certo punto avrei anche potuto dire a mia nonna che pure io volevo la cioccolata fondente, e a chi mi chiamava “professore” avrei potuto rispondere che sarebbe stato meglio per i loro figli che non lo fossi diventato davvero. Ecco, avrei dovuto imparare a farmi sentire molto prima. Sarebbe stato più facile che provare a cancellare anni di disguidi e di commenti inesatti. Almeno lo penso adesso, ché allora non mi sembrava tanto facile. Allora, invece, mi sembrava preferibile lasciar correre. Oggi no. Almeno, non sempre: ogni tanto mi capita ancora di fingere di divertirmi come un tempo. A volte, invece, mi ricordo di tutto questo e cerco di fissarmelo in mente come promemoria: dillo, che cosa ti piace, chi sei e chi vuoi essere. Non riesco ancora a ricordarmelo sempre, ma ci sto provando.
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