Il futuro doveva essere ancora lungo per noi

Ci sono giorni che non dimenticheremo facilmente. Avrei voluto iniziare quest’articolo con qualcosa di meno scontato, ma non so trovare una frase più vera di questa per dire che il 15 aprile ha assunto un significato tutto nuovo, per me, dopo il 2018. Era una domenica, la peggiore che riesca a ricordare. A dire il vero, si è trattato soltanto del coronamento di una settimana tremenda, terminata nel modo più atroce, quello più imprevedibile.
Quando abbiamo scoperto che Tobey non stava bene, pensavo a un male passeggero. Persino quando le cose sono cominciate a peggiorare – e sono peggiorate rapidissimamente – non riuscivo a considerare l’eventualità che non ci fosse nulla da fare. Di quella domenica, di come arrivai dal veterinario, tenendolo in braccio, e di come lasciai lo studio dopo averlo salutato per l’ultima volta, ricordo tutto. Come ricordo tutto della notte precedente, trascorsa nell’insonnia, a camminare avanti e indietro per la casa sperando che l’alba arrivasse presto e con lei la possibilità di un miglioramento improvviso. Mi attendevo il miracolo. Il futuro doveva essere ancora lungo per noi, ne ero certo.
A volte vorrei non ricordare più, cancellare tutta quella settimana con un colpo di spugna e fingere che nessuno abbia sofferto. Ma poi mi dico che devo ricordare, perché ricordare è un atto dovuto, verso di lui, e verso tutto il tempo trascorso insieme. Le settimane e i mesi che sono venuti dopo quel 15 aprile li ho passati a pensare a Tobey tutti i giorni, a memorizzare tutto ciò che di lui m’era rimasto e nel frattempo a metterlo da parte, perché averlo sotto gli occhi sarebbe stato troppo doloroso.
Poi, l’anno scorso, è successo qualcosa che non mi sarei aspettato. I miei genitori hanno fatto ritinteggiare la loro camera da letto durante l’estate. Un fatto insignificante, apparentemente. Infatti non mi sono reso conto di cosa significasse soltanto quando l’autunno era già arrivato: i graffi che Tobey aveva lasciato, con le sue unghie, sulla parete alla destra del letto erano spariti. Mi sono chiesto se i miei ne fossero consapevoli, se ci avessero pensato a cosa sarebbe accaduto dopo quella nuova mano di vernice. Soprattutto, mi sono domandato come abbia fatto a non pensarci prima io stesso.
Mi sono subito sentito in colpa. Un conto sono le sue cose, gli oggetti che gli sono appartenuti – i suoi effetti personali, per così dire – ma quello era tutt’altra cosa. Quei graffi erano il segno tangibile del suo passaggio. Qualcosa di concreto che testimoniasse la sua esistenza. Che lui c’era stato. Un quadro conta molto di più della tavolozza appartenuta al pittore, perché ne rappresenta la sua espressione. Tolti quelli, rimane poco altro. Forse solo gli stessi identici graffi nello stanzino. Non abbiamo mai capito perché grattasse contro la parete, ma quanto sono contento, adesso, che l’abbia fatto.
Mi rendo conto che qualunque indizio del suo passaggio su questa terra varrà ben poco quando noi non ci saremo più, e questa casa apparterrà a qualcun altro, che nulla saprà di noi e di cosa raccontano queste pareti. Però sapere che quei graffi sono lì mi consolava.
Il 15 aprile del 2018 non ero preparato a sopportare quanto quel giorno mi sarebbe piovuto addosso, con tutta la sua imprevedibilità. Forse avrei dovuto immaginarlo, ma non l’ho fatto. Solo un’altra è stata la perdita altrettanto dolorosa che ho dovuto affrontare, e anche lì non me la sono cavata benissimo. Non ho smesso di sperare, nonostante i segnali mi dicessero di non farlo, che le cose andassero diversamente. C’è chi ha la capacità di metabolizzare il lutto ancora prima che questo avvenga, o almeno così sembra. Io non sono fatto di quella pasta. Per quanto tempo possa avere a disposizione credo che non sarei mai sufficientemente pronto. Vorrei avercela anch’io, quella capacità, ma poi mi chiedo se riuscirei a ricordare e a sentire ancora così intensamente.

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